giovedì 23 maggio 2013

La App Economy e la Italy NoMoney!

Ma perché dobbiamo continuare ad invidiare gli americani? Perché la nostra classe dirigente è così palesemente inferiore a quella di quasi tutti gli altri paesi economicamente rilevanti?
Ma vi rendete conto che in America qualche giorno fa Tim Cook, amministratore delegato della Apple, si è presentato alla sottocommissione permanente di inchiesta del Senato per difendere il colosso di Cupertino dalle accuse di evasione delle tasse in Usa. Come è andata a finire? Semplice, con una proposta al Congresso volta ad alleggerire il sistema fiscale.

Quando una dirigenza imprenditoriale illuminata incontra una dirigenza governativa non cieca e non stupida, la nostra economia muore... ma la loro esplode!

Per intendersi Tim Cook è stato invitato dalla Casa Bianca a sedere al fianco della first lady Michelle Obama in occasione del discorso sullo stato dell'Unione come rappresentante delle aziende americana e nonostante questo la Apple è stata messa sotto inchiesta... ve lo immaginate da noi? Avrebbe già avuto sul libro paga cani e porci!

In breve, dopo aver sciorinato en passant tutti i numeri della App Economy (6 miliardi di dollari di tasse al Tesoro americano nell'anno fiscale 2012, 50.000 dipendenti, indotto di 550.000 posti di lavoro in altre aziende in campi come l'ingegneria, il manifatturiero, la logistica e lo sviluppo di software oltre a 290.000 posti di lavoro creati direttamente e indirettamente), ha ammesso candidamente che "circa il 61% dei ricavi Apple sono arrivati dalle sue attività internazionali. Nell'ultimo trimestre, due terzi circa dei ricavi di gruppo sono stati generati all'estero" e che "i ricavi da operazioni internazionali sono tassate rispettando le leggi dei Paesi dove essi sono guadagnati".

Quindi l'accusa di elusione di tasse su circa 74 miliardi di dollari generati all'estero non sussiste in quanto, oltre ad un comportamento impeccabile e trasparente con i ricavi generati in patria, ha dimostrato di avere fatto quanto previsto dalla legge. Nessuna scappatoia, solo una logica di commercio e di equilibrio per sostenere un mercato dove dirette concorrenti hanno regimi di tassazione inferiori (vedi Samsung!).

Quindi, poiché "le attuali leggi tributarie relative alle aziende americane scoraggiano pesantemente l'uso di tali fondi negli Stati Uniti imponendo un'aliquota del 35% sul rimpatrio" dei profitti stessi generati Oltreoceano, Apple si guarda bene dal rimpatriare un tesoretto da oltre 100 miliardi di dollari di contanti.

Apple chiarisce che "non sposta la sua proprietà intellettuale in paradisi fiscali offshore usandola per vendere prodotti negli Stati Uniti per evitare così le tasse americane". E ancora: "Apple non detiene denaro alle isole dei Caraibi, non ha un conto bancario alle isole Cayman e non trasferisce verso altre giurisdizioni ricavi tassabili [derivanti dalle] vendite ai consumatori americani per evitare la tassazione americana".

Questi sono comportamenti costruttivi! L'Apple ha proposto un'aliquota del 6%...

In Italia? No, noi non abbiamo di questi problemi. Da noi portano direttamente i capitali nostrani nei paradisi fiscali!
La Fiat Finance è in rue Aldringen in Lussemburgo, così come Ferrari, Italcementi, Merloni, Franco Tosi, Pirelli e Marcegaglia.... vogliamo continuare? Oppure basta per rendersi conto di come portare i capitali NOSTRI in un paese che l'Ocse ha qualificato come paradiso fiscale, ha per loro un indubbio vantaggio e per noi una sonora fregatura?
E dei 1,5 milioni di dollari al giorno chi i cinesi di Prato, secondo Banca d'Italia, mandano in Cina che ne diciamo?
Ha già dimenticavo. NOI siamo stati capaci di fare lo Scudo Fiscale per far rientrare in maniera anonima i NOSTRI capitali evasi con una tassazione ridicola, senza sanzioni o almeno mazzate, salvo poi rendersi conto che era poca come tassazione e provare a richiederne altre e come sempre perdere la faccia e la fiducia... siamo guidati da indecenti!
 
 


martedì 26 febbraio 2013

David Walker e i suoi "scarabocchi"


Quasi per caso, razzolando nella rete, mi sono imbattuto in una immagine che mi ha veramente colpito. La didascalia riporta "David Walker, Street Art".

Street Art? In che senso? Io ero rimasto ai graffittari e writer che sfogavano la propria creatività sui muri, sugli autobus e troppo spesso sul nostro patrimonio artistico, riempiendo le lettere con colori molto vivaci, lasciando messaggi non sempre comprensibili o diffondendo il proprio nome come logo.

Questa invece è vera arte! Questa vorrei vederla sui muri della stazione arrivando a Santa Maria Novella come anteprima dello spettacolo artistico che Firenze offre. Questo "post-graffitismo" è molto interessante, ha una platea urbana molto meno di nicchia rispetto alle gallerie, più user-friendly, può essere contemplata in fase di realizzazione e rende luoghi anonimi protagonisti della scena.

Niente pennelli, stickers o stencil... solo spray e mano libera, innumerevoli linee scarabocchiate e aree astratte che s’intrecciano attraverso i colori contrastanti, gocce traslucide e forme di lettere in decomposizione (come ho letto su una sua intervista!), per creare ritratti foto realistici di soggetti sconosciuti.
Bravo il ragazzo, vero? Ha iniziato imbrattando t-shirt per i Prodigy, fino alle copertine dei CD, poi finalmente tre anni fa si è liberato su muri e saracinesche di Londra con risultati sorprendenti, creando imbarazzo a chi ha sempre avuto troppi preconcetti nel giudicare i graffiti rispetto alla pittura tradizionale.

Dal 2004 David è il membro di riferimento dello Scrawl Collective (http://www.scrawlcollective.co.uk/index.php), un gruppo di artisti con diversi stili e pratiche che regala performance in giro per l'Europa e nel 2012 ha avuto la sua prima mostra alla Rook and Raven Gallery di Londra intitolata “Brides of Fire” (http://youtu.be/EXJY-5bckK8), titolo preso in prestito da My lady story di Anthony and the Johnsons (http://youtu.be/35-RJ7NxFFY), che calza a pennello, anzi a bomboletta spray, sui ritratti delle sue donne, belle, determinanti, che posso fare male come il fuoco!

Dato il suo successo e l'avvicinarsi del decimo anniversario degli Scrawl in giro per l'Europa, posso sperare che qualcuno provi a farlo esporre anche in Italia?

Il suo sito:

 

martedì 12 febbraio 2013

Un cappello pieno di ciliege di Orianna Fallaci

 



Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione.
Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato. La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi. Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta. Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono.

lunedì 7 gennaio 2013

Walter Bonatti e la vera etica


«... in un mondo che attualmente sembra sempre più disposto a premiare i furbastri e gli imbroglioni, nonché a darla vinta ai ladri e ai corrotti, è difficile far passare virtù come l'onestà, la coerenza, la responsabilità, l'impegno e gli slanci disinteressati dell'animo. Tutti sappiamo che il vero malato di base, infetto e contagioso, oggi è lo Stato – il nostro per lo meno – con le sue delegittimante e svilite istituzioni, con i suoi confusi e troppo spesso scandalosi intrecci di potere e di interesse personale. Ne consegue che la società, così compromessa negli effetti del malgoverno, così coinvolta fino ad affogare nel riflesso delle proprie e altrui debolezze, giunge a stravolgere o a ignorare i più elementari valori.»

Questo scrive Bonatti in Montagne di una vita [1], nel 1995, ben 18 anni fa. Da allora le cose non sono poi così cambiate e certo non sono migliorate.

 
Lo so. Per quasi tutti Walter è un monumento alla sfida, uno scalatore, forse il più grande di tutti i tempi, un uomo grazie al quale è stato conquistato il K2, ma in questi mesi, in cui, da appassionato di montagna, ne ho approfondito la vita, le esperienze e i difetti, mi sono reso conto che la mia più grande ammirazione per lui non sta nelle singole imprese bensì nella sua eccellenza etica, granitica come la roccia, senza compromessi, capace di esprimere grandi valori umani, capace di portare rispetto all'alpinismo, rendendolo come espressione di fantasia, idealità e bisogno di conoscenza, sopratutto del proprio intimo.

Già il K2! La sua più grande battaglia culturale, una lezione civile, per ripristinare una verità storica:

Componenti della spedizione al campo base. Al centro Ardito Desio.
“... nel 1954 partecipa alla spedizione italiana capitanata da Ardito Desio, che porterà Achille Compagnoni e Lino Lacedelli sulla cima del K2; con i suoi 23 anni è il più giovane della spedizione. Il giorno prima che Lacedelli e Compagnoni raggiungano la vetta, Walter Bonatti scende dall'ottavo campo verso il settimo per recuperare le bombole d'ossigeno lasciate lì la sera prima da altri compagni. Con questo carico sulle spalle, insieme ad Amir Mahdi, risale fino all'ottavo campo e di lì, dopo una pausa ristoratrice, fino al luogo in cui Compagnoni e Lacedelli avrebbero dovuto allestire il nono campo. I due però, soprattutto per scelta di Compagnoni, non allestiscono il campo dov'era stato previsto la sera prima di comune accordo con Bonatti, ma lo fissano circa 250 metri di dislivello più in alto. Bonatti e Mahdi riescono ad arrivare nei pressi del luogo concordato poco prima del tramonto, ma non vengono aiutati da Compagnoni e Lacedelli, che invece d'indicar loro la strada per la tenda si limitano a suggerire da lontano di lasciare l'ossigeno e tornare indietro; cosa impossibile, visto il buio che incombe, l'enorme sforzo che già hanno sostenuto i due dalle prime ore del giorno, e vista soprattutto l'inesperienza di Mahdi a quelle quote e su quei terreni. Il calare delle tenebre rende a Bonatti e Mahdi impossibile individuare la tenda dei due di testa; si ritrovano così soli a dover affrontare una notte all'addiaccio nella "zona della morte" con temperature stimate intorno ai -50 °C, senza tenda, sacco a pelo o altro mezzo per potersi riparare. Solo alle prime luci dell'alba del giorno successivo i due possono muoversi e ritornare verso il campo 8, dove giungono in mattinata; Mahdi riporta seri congelamenti alle mani ed ai piedi, ed in seguito subisce l'amputazione di alcune dita.”[2]
Compagnoni in vetta con la maschera
dell'erogatore dell'ossigeno
La via seguita per la prima scalata dalla
spedizione italiana del 1954 con gli ultimi campi.
La versione ufficiale del capo spedizione, a cui Walter è costretto a sottostare per contratto, è quella del raggiungimento della vetta da parte degli italiani senza l'uso di ossigeno, esaurito a 200 m dalla vetta dato che Bonatti lo avrebbe utilizzato egoisticamente per la propria sopravvivenza o per provare a salire lui stesso la vetta con Mahdi, in barba agli ordini di spedizione... peccato che solo Compagnoni avesse l'erogatore per poter respirare dalle bombole e nelle foto di vetta si vedano i segni lasciati sul suo volto dall'erogatore e il fardello delle bombole che i due si sarebbero trasportati vuoti fino alla vetta (18 kg a 8600 metri trasportati anche se non utilizzabili?).

Foto scattata in vetta da Compagnoni
Non vi sembra la tipica cosa all'italiana? In quel periodo storico, abbastanza buio, si cercava di restituire dignità all'Italia, di risvegliare un orgoglio italiano.

Benissimo, e cosa meglio del raggiungimento, per la prima volta nella storia, della vetta del K2, la seconda cima più alta del mondo, attraverso lo Sperone degli Abruzzi, già esplorato nel 1909 da un altro grande alpinista italiano, Luigi Amedeo duca degli Abruzzi.

Ma ecco che emergono tutti i limiti dell'italianità, dei furbetti avvezzi  all'imbroglio. Aggiungono un “senza l'ausilio dell'ossigeno” per rendere ancora più memorabile l'impresa.

Dopo processi, articoli, libri finalmente la verità è stata acclamata nel 2008, 53 anni dopo, con la correzione della versione così come raccontata e vissuta da Bonatti.

Abbiamo proprio fatto una bella figura, bravi!

«La montagna mi ha insegnato a non barare, a esser onesto con me stesso e con quello che facevo. Se praticata in un certo modo è una scuola indubbiamente dura, a volte anche crudele, però sincera come non accade sempre nel quotidiano. Se io dunque traspongo questi principi nel mondo degli uomini, mi troverò immediatamente considerato un fesso? È davvero difficile conciliare queste diversità. Da qui l'importanza di fortificare l'anima, di scegliere cosa si vuole essere. E, una volta scelta una direzione, di essere talmente forti da non soccombere alla tentazione di imboccare l'altra?»

Riusciremo mai noi italiani a essere migliori, a perseguire qualche ideale, a mettere da parte invidia ed egoismi? Peccato che la scuola della montagna non è alla portata di tutti, come non lo è quella del mare o della terra, altrettanto dure.

Io non ho ancora capito se la società è lo specchio di chi la governa o viceversa, so solo che se guardiamo i nostri ultimi vent'anni c'è da vergognarsi, poi si meravigliano se non crediamo più nella politica e se i nostri sforzi sono tutti tesi alla sopravvivenza sociale, a essere più furbi dello Stato e di chi ci circonda... il sentimento che, secondo me, accomuna un po' tutti è quello della guerra, siamo in guerra, far tornare i conti è una guerra, pagare meno tasse è una guerra, ottenere scorciatoie è una guerra, tirare su un figlio è una guerra.
Italian Way of Life, Fifo: La più italiana delle virtù

Verrebbe voglia di fare una rivoluzione, ma il problema è contro chi? Certo, contro lo Stato e la politica che ci stanno sempre più affossando, incapace di capire che sta fallendo in tutti i sensi e che dovrebbe iniziare a gestirsi come una società privata che cerca di rimediare al default.

Ma non basta! La rivoluzione andrebbe fatta tutti contro tutti, contro la nostra mentalità, la nostra educazione e la nostra storia, contro tutte le scuse e giustificazioni che ci diamo quando scendiamo nella guerra quotidiana.

In sostanza è impossibile! Non resta altro che sforzarsi di non fare il loro gioco, di provare ognuno per se ad essere migliori e diversi, di continuare a indignarsi contro i furbetti, di continuare a scandalizzarsi per quello che via via sembra sempre più normale, di insegnare ai nostri figli l'importanza di certi valori, anche se, come dice Bonatti, sembreremo dei fessi!

Chiudo questo sfogo con un ricordo di Walter, esempio di etica senza ombre, un solitario escluso dalla società che rappresentava il suo mondo solo perché diverso e poco incline ai compromessi.
La parete nord del Cervino affrontata in solitaria invernale

Inverno 1965, l'ultima scalata impossibile, nel centenario della prima ascensione, la terribile nord del Cervino, a soli 35 anni, impresa che gli è valsa la medaglia d'oro al valore civile dal presidente Saragat.


Ore 15:00 del 22/02/1965: Walter Bonatti in vetta al Cervino

Un uomo solo, piccolo, incorniciato dall'immensità delle montagne. Una croce accanto a lui, simbolo della sofferenza patita per arrivare fin lassù, simbolo della libertà che quell'impresa regala a lui.

Assolutamente da vedere la puntata di Sfide andata in onda su Rai3 il 22 Ottobre 2012: "Walter Bonatti, Al di là delle nuvole"



[1] Montagne di una vita di Walter Bonatti, Baldini Castoldi Dalai editore, 1995, 335 p
[2] Wikipedia

domenica 4 novembre 2012

La donna dei fiori di carta di Donato Carrisi




 
 Bello, bello e inaspettato.
Carrisi, dopo che con i suoi precedenti romanzi thriller, “Il suggeritore” e “Il tribunale delle anime, ha meritato il titolo di “maestro del brivido” si concedete il gusto di raccontare, nel senso che si regala una narrazione di contenuto fantastico o realistico di minore estensione rispetto al romanzo, come un vero e proprio aedo della tradizione orale di un tempo.
Di più, scrive il Racconto dei racconti.

Riprende una delle sue prime commedie scritte per il Gruppo Teatrale Vivarte, musicata dal suo socio Vito Lo Re, “Il fumo di Guzman”, e inizia ad innestare una serie di racconti con collegamenti semplici ma efficaci nella narrazione.
 


Il fronte dolomitico del Monte Fumo
Il canovaccio del Racconto è una battaglia della prima guerra mondiale, avvenuta nei primi giorni dell'Aprile del 1916 su fronte dolomitico, in cui i nostri alpini conquistarono una cima a cavallo del confine tra Italia e Austria, il Monte Fumo (per l'appunto!). Nella notte tra il 14 e il 15 Aprile, un medico austriaco tenta di evitare la fucilazione ad un prigioniero italiano, cercando di fargli confessare nome e grado, rendendolo così merce di scambio, prezioso salvacondotto in quella realtà distorta della guerra faccia a faccia che ha segnato la nostra storia.
 
Il prigioniero inizia la confessione legandola alla risposta a tre interrogativi: chi è Guzman? chi sono io? chi era l’uomo che fumava sul ponte del Titanic che stava affondando?
 
Sulla scia del fumo di Guzman iniziano racconti di storie che ci portano in tempi lontani e in paesi diversi, dall’ermafrodita Madam Li alla affascinante signora Eva Mòlnar, da «i fumi di sapone nei cieli di Marsiglia» alle «montagne cantanti della Cina».

L'unico filo conduttore è l'amore, per una donna, per la montagna, per il fumo e per il raccontare.

Il medico, che riesce a trarre poesia e narrazione anche dalle ultime parole che i suoi commilitoni prima di spirare, si ritrova così a far parte della trama dei racconti, con la sua storia d'amore nata grazie alla dedizione di una infermiera che lo conquista con 26 fiori di carta, recitanti opere di Shakespeare, Ariosto e Leopardi, e lo lascia con un unico pezzo di carta recapitata in ritardo di sei mesi al fronte.
 
Ma perché lui? Semplice, è il suo compleanno! Beh, dai una semplice coincidenza di tempo... No.

Allora perché il Titanic? Ancora più semplice... è affondato due anni prima proprio quella notte, tra il 14 e il 15 Aprile del 1912!

Uno dei tanti lacci di fumo con cui Carrisi collega i suoi racconti, una trama che sembra essere finalizzata a spiegare ad una misteriosa donna il fallimento dei suoi più grandi amori di un tempo e di aiutare il medico a superare la fine della sua relazione.
 
Veramente una bella narrazione, parole che sembra di ascoltare invece che leggere, un bel gioco tra realtà e fantasia, che lascia a chi gira l'ultima pagina la voglia di capire cosa ci sia di vero, anche se, come l'autore fa recitare al medico,«La verità non fa per me. Però mi piace immaginarla.»

«...l'unico modo per evadere la realtà è morire»

6 maggio 1937: attraversamento del dirigibile Hindenburg sopra il cielo di New York

Edizioni Longanesi, 2012, pagg. 169, 11,60 €
 

mercoledì 25 aprile 2012

Wildspitze... abbiamo domato la "Punta selvaggia"

Io, Andrea e Fabrizio sulla vetta
Sabato 21 Aprile, verso le 13:00 ero sulla vetta dello Wildspitze, 3.772 m s.l.m, la montagna più alta delle Alpi Retiche orientali, o meglio delle Alpi Venoste (in tedesco Ötztaler Alpen) e la seconda dell'intera Austria.

Per i meno montanari l'Ötztal è famoso per il ritrovamento della mummia nel 1991, il famoso Ötzi, appunto, il pastore del Similaun, considerato il primo essere umano tatuato di cui si abbia conoscenza.
Il ghiacciaio
Pernotto al Gletscher-Landhaus Brunnenkogel  a St. Leonhard im Pitztal, un albergo senza infamia e senza lode, con mezza pensione all'austriaca, alle sette gambe sotto al tavolo. Al nostro arrivo venerdì sera nevica e le nuvole sono basse... La valle non è un granché, chiusa da innumerevoli pareti strapiomabanti con evidenti conoidi di scarico della neve che hanno costretto la realizzazione di diverse gallerie artificiali per non isolare la zona in seguito alle frequenti valanghe. Per il resto quasi tutte attività alberghiere costruite di recente sulla scia della popolarità e del turismo sul ghiacciaio... niente a che spartire con le nostre Dolomiti!
Enrico, la nostra guida
Unica cosa buona che sembra avere questa valle, come ci ricorda Enrico, la nostra Guida Alpina alloctono di Corvara, genovese di natali, sempre prodiga di informazioni e cultura di ogni genere (non a caso è il vicepresidente nazionale... ma io lo voterei anche per ruoli di tipo istituzionale!) , è aver dato gli albori ad uno sciatore come Benny Raich, che ha vinto... tutto e tante volte!
Alla sveglia sabato mattina, Fabrizio, compagno di russata e istruttore volontario del CAI di Udine, uno dei moschettieri che scia meglio, è già in terrazza in mutande a suonare la carica "si è aperto, è bello!".

Colazione e via per una delle prime corse del Gletscherexpress, trenino che da Mittleberg (1.740 m) ci porta sugli impianti del Pitztal Glacier (2.840 m). Sole e neve fresca già dai primi passi ci galvanizzano! Vedo negli occhi di Andrea, altro grande moschettiere di esperienza e grande trascinatore del gruppo, tutta la gioia per quello che ha capito che ci aspetterà.
La salita
Con circa 800 metri di dislivello su terreno facile, nel mondo meraviglioso che rappresenta un ghiacciaio, raggiungiamo la cresta finale (dopo aver sfiorato il congelamento di un paio di dita per scattare qualche foto di troppo!).
La sosta prima della vetta
Corda, ramponi e piccozza! Si raggiunge la cima con un panorama mozzafiato. Sono euforico, non sento nemmeno i quasi 3.800 m di quota che tre anni fa m'hanno fatto abortire la Palla Bianca con i suoi 3.738 metri (beh, iniziavo a vedere il ghiaccio giallo e verde!!!).
Uno spettacolo. Una vista scaccia pensieri rubata in una finestra di bel tempo a interminabili giorni di foschia e precipitazioni (tra l'altro tutti i miei complimenti vanno ai progressi della meteorologia, sono stati in grado di prevederla con esattezza!).
La vista dalla vetta

La meta
La discesa si effettua lungo il percorso di salita, continuando poi nella lunghissima valle fino al parcheggio delle auto, 2.000 m di dislivello nella polvere, 15,6 km con tratti di grande soddisfazione e bellissime firme lasciate sui pendii (ah, non fosse stato per l'affanno e la mancanza di fiato che mi rovinato la sciata!).
Una Weizenbier è la giusta conclusione di una esperienza così bella e di soddisfazione che rimarrà nella mia mente per parecchio tempo.
P.S. Moschettieri, per la prossima gita... allenatevi anche un po' con il calcino!


Uno dei crepacci
Andrea


martedì 10 aprile 2012

Be, have... behave!

Ridendo e scherzando, senza alcuna velleità, la mia mente mi ha messo di fronte ad un aspetto che ho paura faccia parte del mio carattere.
Durante una conversazione in inglese ho avuto difficoltà a trovare il verbo per tradurre "comportarsi"...  quando ormai non serviva più e credevo di essermi già dimenticato di questo dubbio, più precisamente già rilassato a letto, la mia mente se ne esce con un banalissimo "behave"... ma come fai a non ricordarlo! Più facile di così, è la composizione delle due parole più usate in tutte le lingue... essere e avere, to be e to have... ma certo, si sa che l'inglese è concreto, comportarsi cos'è se non un tendere all'essere o all'avere.

Nuda e inesperta come una bambina, la mia mente ha cominciato a filosofeggiare sul legame tra comportarsi, essere ed avere.

Ma certo, dai, pensa a una conversazione. Il tuo comportamento, le tue risposte, saranno sicuramente influenzate da chi e come sei se reagisci spontaneamente, altrettanto si può essere influenzati da quello che si ha o da cosa si vuole ottenere dalla conversazione.

Pensa alla conoscenza, alla cultura fine a se stessa, che ti appaga anche solo a livello mentale, come il piacere di un bel film o dell'ultima pagina di un libro, oppure pensa alla conoscenza come possesso di informazioni, utili per qualsiasi tipo di baratto o forma di marketing di se stessi.

Senza andare su banali diatribe politiche o altrettanto facili buonismi caritatevoli, a me interesserebbe capire come mi comporto, quanto il mio "avere", la mia avidità, la mia ricerca di autorità e ragione, la mia bramosia, il mio amore come oggetto e non come atto di amare influenzino il mio comportamento e mi portino lontano da chi sono, da mio "essere".

Davanti ad un bel fiore, come mi comporto? Sento la necessità di coglierlo per averlo e mostrarlo oppure resto in estatica osservazione per godermi quello spettacolo?

Un amore come lo vivo? In maniera condizionata, con gelosie e senso di possesso, oppure come vero e proprio atto d'amore, lasciando l'altra persona libera di essere e amando quello che è?

Ho letto che la propensione verso l'uno o l'altro dei due comportamenti nasce dentro di noi da neonati in maniera quasi casuale.

Se piangi perché hai fame e la pappa ritarda per futili motivi o piangi perché hai sonno e qualcuno col pretesto di calmarti non la smette di starti addosso, piano piano ti sposti verso l'"avere", verso il desiderare che non viene appagato subito. Nella vita quindi non amerai desiderare a lungo e cercherai di giungere in tempi brevi agli obiettivi e quindi ti coinvolgerai con persone che appagheranno velocemente le tue esigenze. Una volta soddisfatte però cercherai attivamente nuovi possessi, nuovi appagamenti.

Di contro, se la mamma ti porta la pappa quando non hai fame, ti costringe a mangiare, vengono violati i tuoi desideri, ottieni quello che non vuoi. Questo ti porterà ad amare il desiderare più che l'ottenere ed a raggiungere i tuoi obiettivi in tempi più lunghi. Quindi ti coinvolgerai con persone che non appagheranno le tue esigenze, e se verranno soddisfatte cercherai nuove fonti di desiderio in maniera passiva, lasciando che gli altri guidino il gioco per aumentare il desiderio il più possibile.
Ho paura a darmi una risposta anche se so benissimo verso cosa sono più orientato.


Spero davvero sia solo filosofia o psicologia spicciola, un esercizio quasi come la lettura di un oroscopo... perché guardarsi indietro fa male, avanti sempre peggio... non può essere tutto racchiuso in questi schemi, anche se ci guardi dentro e ti ci rivedi... è pura ipocondria...

Io lo so già che esiste qualcosa che mi riempie, che non mi fa sentire incompleto, che fa perdere di significato allla predominanza di desiderio o possesso... tutto sta nel riconoscerlo e nell'accettarlo.

Comunque domani faccio quattro urli alla mia mamma... tutta colpa sua!