domenica 26 dicembre 2010

Natale I

Il rosso del cruscotto e la musica rendono il rientro
un viaggio più mentale che di scorrimento.
Il pensiero resta su questa giornata, strana e profonda,
carica di affetti, ma genuina solo negli occhi impazienti dei bimbi.
Il pensiero va al libro che ho letto, fuori dal tempo, davanti al camino.
Unica cosa che ne ho tratto è stato un “Mah!” quando l’ho richiuso.
Il pensiero va ad un messaggio di auguri non ricevuto,
a qualche telefonata che mi ha fatto esistere
e al dono senza ricompensa che uno sconosciuto ci ha fatto.
Tutto normale, tutto semplice eppure quest’anno sentito,
nel bene e nel male, e sono felice, felice di queste emozioni.
Finalmente ho smesso di rispondere alla mia immagine,
nel senso di res pondere, ovvero di sentire il peso delle cose,
di farmi imprigionare dal loro senso senza goderle.
Una seconda possibilità che l’ottusità del mio sono così
non è riuscita a portarmi via.

sabato 18 dicembre 2010

Simple Man (Lynyrd Skynyrd)

Questa è una delle canzoni a cui sono più legato. A me piace nella versione di Warren Haynes,
voce dei Gov't Mule e per lungo tempo uno degli Allman Brothers.

Con un testo così c'è poco da commentare:

Mama told me when I was young                     Mia madre mi disse quando ero piccolo:
Come sit beside me, my only son                    Vieni, siediti vicino a me, mio unico figlio
And listen closely to what I say.                      E ascolta attentamente ciò che ti dico.
And if you do this                                           E se lo farai,
It will help you some sunny day.                     questo ti aiuterà In un giorno di sole
Take your time... Don't live too fast,                 Prendi il tuo tempo… Non vivere troppo di fretta,
Troubles will come and they will pass.              I problemi arriveranno e poi se ne andranno.
Go find a woman and you'll find love,                Và, trova una donna e troverai l'amore,
And don't forget son,                                       E non dimenticare, figlio,
There is someone up above.                            Lassù c'è qualcuno

And be a simple kind of man.                          E sii un uomo semplice
Be something you love and understand.           Sii qualcosa che tu ami e capisci
Be a simple kind of man.                                Sii un uomo semplice
Won't you do this for me son,                          Lo farai per me figlio,
If you can?                                                     se puoi?

Forget your lust for the rich man's gold             Dimentica la brama di oro dell'uomo ricco
All that you need is in your soul,                      Tutto ciò di cui hai bisogno è nella tua anima,
And you can do this if you try.                         E puoi farcela se ci provi
All that I want for you my son,                         Tutto ciò che desidero per te, figlio mio,
Is to be satisfied.                                            E' di essere soddisfatto

Boy, don't you worry... you'll find yourself.        Ragazzo, non preoccuparti... troverai te stesso.
Follow you heart and nothing else.                   Segui il tuo cuore e nient'altro.
And you can do this if you try.                         E puoi farcela se ci provi.
All I want for you my son,                                Tutto ciò che desidero per te, figlio mio,
Is to be satisfied.                                            E' di essere soddisfatto.


Magari avessi avuto o, meglio, mi ricordassi tutti i giorni insegnamenti del genere!

giovedì 9 dicembre 2010

Qui ed ora... promemoria per me stesso.

Nel Buddhismo “qui ed ora” significa vivere ciascuna azione e ciascuna situazione con la massima pienezza ed intensità, unitamente alla massima consapevolezza delle proprie sensazioni interiori.

Vivere qui e ora rappresenta la chiave per una vita attiva, poiché solamente in questo preciso istante possiamo fare qualcosa e quindi essere attivi. La maggior parte di noi, ad esempio, vive la propria giornata scandita dall’orologio. Lo tiene costantemente sott’occhio ed è sempre altrove a rincorrere mentalmente appuntamenti o scadenze, con il pensiero, quindi, ovunque eccetto che in se stessi. Oppure, ancora, aspetta che una situazione o uno stato d’animo si risolvano, maltrattando ciò che accade nel frattempo.
Certo, bisogna pur pianificare, raggiungere obiettivi o dare tempo a noi stessi di somatizzare certi accadimenti, ma il punto sta nel rendersi consapevoli del fatto di essere qui ed ora, indipendentemente da ciò che stiamo facendo o di dove ci troviamo. Se mangiamo, mangiamo. Se corriamo, corriamo. Se abbiamo dolori, soffriamo. E se siamo felici, allora siamo felici. Seguendo questo principio saremo in grado di accettare qualunque cosa ci accada.
Diciamo semplicemente “Sì” all’esperienza che stiamo facendo. Nel momento in cui lo facciamo, rimaniamo nel presente, completamente. Ora possiamo decidere consapevolmente cosa fare.
Spesso noi (ma forse sarebbe meglio un io) soffriamo per le cose che abbiamo fatto o che non avremmo dovuto fare, per parole non dette o per situazioni non vissute come si sarebbe voluto. Il rischio è quello di diventare ossessionati perché una volta che cominciamo a ricordare i nostri errori si crea tutto uno stato d’animo. Tutti i momenti colpevoli del passato possono tornare a galla e rovinare la nostra vita presente. In poche parole ci costruiamo da soli un vero insopportabile inferno.
Dire “è così” significa solo ricordare a se stessi di vedere questo momento così com’è.  “Questo è un ricordo.” è una affermazione corretta. Non è una rimozione del pensiero, non lo si giudica ne lo si condanna, ma non lo si sta più considerando con attaccamento personale. I ricordi, se visti chiaramente, non hanno essenza. Si dissolvono nell’aria.
“Provate a ricordare una vostra colpa e mantenete il ricordo deliberatamente. Pensate a qualche cosa di terribile che avete fatto in passato, e poi stabilite di tenerlo nella vostra coscienza per cinque minuti. Cercando di continuare a pensarci, scoprirete quanto è difficile da trattenere. Ma quando quello stesso ricordo sorge e voi gli opponete resistenza, ci sguazzate dentro o ci credete, allora può accompagnarvi per tutta la giornata.”[1]
Ogni volta che siete consapevoli di quello che state pensando, state facendo esperienza. All’inizio può sembrare che emozioni e desideri siano più forti, che la semplice consapevolezza sia impossibile. Si possono avere soltanto pochi brevi momenti di consapevolezza e poi si torna di nuovo nella tempesta che imperversa. Può sembrare senza speranza, ma non lo è, più la si mette alla prova e gli si da fiducia, più diventa stabile e troverete che la vostra vera forza è in questo, non nel controllo dell’oceano, delle onde, dei cicloni e degli tsunami e di tutto il resto che comunque è impossibile per voi controllare.
In conclusione:
-          Evitiamo di vivere nel passato. Pensiamo a cose passate che secondo noi sono rimaste inconcluse. I nostri pensieri tornano ripetutamente indietro nel tempo per produrre pensieri del tipo: “se solo avessi fatto…” oppure ci sentiamo colpevoli per qualcosa che non possiamo più cambiare. Ciò che è stato è stato: il passato è irrimediabilmente trascorso e non lo possiamo cambiare, neppure in minima parte. Qui e ora possiamo però imparare dal passato, perdonare noi stessi e gli altri, chiudere con i fantasmi del passato, sentirci ricchi e soddisfatti per ciò che nel passato abbiamo fatto, vissuto e imparato.
-          Evitiamo di vivere nel futuro. Anche chi si focalizza costantemente sul futuro non vive nel presente. Chi guarda troppo avanti tende continuamente a preoccuparsi e a pensare: “che cosa farò se succede questo o quell’altro?” In sostanza ci si ritrova a non godersi la vita adesso. E’ pur vero che di tanto in tanto è importante guardare al futuro per dare una certa impostazione al proprio percorso e decidere in quale direzione andare. Porsi degli obiettivi personali è un passo molto importante per vivere in modo consapevole ed apprezzabile.
-          Vivere oggi, vivere ora!  “Inspirare” la vita e cercare di percepire con tutti i nostri sensi cosa vuol dire vivere adesso. Vivere in un modo che ci impedisca di dover rimpiangere qualcosa di intentato, realizziamo i nostri sogni e concludiamo ciò che è in sospeso. Viviamo l’oggi dopo aver fatto pace con il nostro passato e facciamo tesoro di ogni esperienza.[2]
Magari a qualcuno questa riflessione è utile come lo è adesso per me.


[1] Presenza nel Qui ed Ora del venerabile Ajahn Sumedho
[2] Vivere qui e ora, Creativ Power

mercoledì 1 dicembre 2010

Un addio

Immagini sulla musica degli Ex.Wave
Sono rimasto qui non so quanto, sotto casa tua, in macchina, non avevo la forza di ripartire, come se continuare ad aspettare volesse dire strappare ancora qualche momento della nostra storia.
Ho aspettato, ad occhi chiusi, con la testa piegata in avanti e le mani giunte, portandomi spesso le dita sugli occhi come a voler scongiurare le lacrime.
Ho aspettato di sentire nuovamente la porta della macchina sbattere, il cancello e il portone chiudersi. Tre suoni, come quelli di un arbitro impietoso che mette fine alla mia sconfitta.
Ho aspettato, mentre Apri gli occhi degli Ex.Wave andava in sottofondo, una potente melodia di viola e pianoforte, perfetta colonna sonora allo scorrere delle immagini di una storia d’amore, ma altrettanto perfetta per ricordare momenti che non saranno più e sognare sorrisi di una complicità finita.
Ho aspettato per poterti dire le cose che nell’attimo prima dell’addio sono rimaste bloccate, intrappolate nell’ingorgo delle infinite parole in un solo momento. E’ difficile che tu possa averle lette nei miei occhi, nello sguardo veloce e imbarazzato che mi hai dedicato prima di sbattere lo sportello, come se in quel momento fosse più facile fuggire che sostenerne il significato.
Ho aspettato. Invano.
Adesso non c’è più tempo per sognare, parlare, fare silenzio o semplicemente per averti accanto. Resta solo il tempo negato.

Adesso solo il buio della mia stanza conosce quelle parole.

martedì 23 novembre 2010

BISCE D'ACQUA



Storia di ordinaria sfollia

(Tutta opera di fantasia, tranne il dramma!)

La suoneria del telefono interrompe bruscamente la mia ricerca gastronomica, tra un Rixo de Grumoło dełe Badese e un Bacalà. Rispondo senza staccare gli occhi dal monitor.
«Ingegnere?». Avere una nuova segretaria mi disturba quasi come il trasferimento.
«Mi dica».
«Non mi dia del lei, un po’ di confidenza, sono la sua segretaria!».
«Ma non è una questione di ruoli, Antonella, è educazione».
«Ma anch’io sono educata, eppure mi ha chiesto di darle del tu…».
«Si, Antonella…» la interrompo «troppa trama. Cosa voleva?».
«E’ arrivato il corriere con le forniture per l’ufficio».
«Fai portare tutto in archivio. Scendo subito, grazie».
Il sogno di un nuovo ufficio è quasi realizzato, finalmente. Dopo un mese di via vai di muratori, elettricisti, idraulici e arredatori, l’opera magna di ristrutturare un cento metri quadri è quasi finita. Manca solo un po’ di calore, un po’ di cancelleria disordinata e qualche foglio imbrattato con progetti in progress.
Passo davanti alla porta del mio nuovo collaboratore, un giovane geometra, Simone, un tipo un po’ strano, tanto che il primo giorno si è presentato con un tappetino per il mouse con lo stemma della Lega Nord, ma che promette bene in termini di grafica ed estetica.
Lo invito con un cenno della testa a scendere con me per dare una mano a portare dentro gli scatoloni.
Faccio in tempo a stringere la mano al padroncino che mi squilla il cellulare.
«Babbo».
«Oh Michele, come te la passi?».
«Bene, è venerdì… anche se non si vede il sole da un pezzo!».
«Te l’avevo detto, vai a vivere al nord, corri dietro all’amore, a me di solito erano le donne mi correvano dietro!».
Sorvolo la facile ironia sulla mia scelta e incalzo «Perché? Fammi capire, lì a Firenze non piove?».
«Ni, fa culaia, però ancora regge!».
«Qui se continua a piovere» gli dico osservando il cielo dallo sporto «ci va di fuori anche il fiume! ».
«Stai tranquillo, come diceva Staples Lewis “L'esperienza è una maestra severa, ma impari. Mio Dio, se impari!”».
«Ma sei veramente da bosco e da riviera! Mischi il fiorentino con le frasi colte».
«Te lo ricordi il ‘66, vero? Quando stavamo in Gavinana…».
«Oh babbo, sono nato nel ’74».
«Ah già, ma con tutte le volte che te l’abbiamo raccontato... sai quanti sistemi ci sono adesso per prevenire, monitorare, anni di ingegneria fluviale. Ti devo salutare, è arrivato il rabdomante. Ci sentiamo nei prossimi giorni».
Rimango un po’ di stucco, un ingegnere, vecchio stampo come lui, che si affida al rabdomante per fare un pozzo nella casa in campagna.
«Questo è l’ultimo scatolone!» pone l’accento Simone con il sorrisino.
«Beh, è quello del caffè, vero?».
«Credo, si».
«… e allora portalo su, alla macchinetta, che ve lo offro!».
Passiamo un’oretta buona a chiacchiera, Simone e Antonella cercano di alleviare la mia nostalgia di casa, enfatizzando Vicenza, i palazzi del Palladio, la sua gente, «… i xe famusi par èsare soranomenà "Magnagati"!» fa notare il padroncino prima di salutarci, strappandomi una risata, ma soprattutto sottolineano la bellezza della strada in cui ho avuto la fortuna di trovare l’ufficio, contrà XX Settembre, con le sue cose tipiche, l’Offelleria storica, l’ottimo Ristorante, il Pub di moda e così via.
«Via ragazzi, andiamo a casa, mettiamo a posto Lunedì. Rilassatevi nel week end che avrò bisogno di schiene riposate. Ah, dimenticavo, Antonella, dai un colpo di telefono a Spartak, doveva venire a finire oggi, digli che lunedì mattina lo voglio qui».
«Lo sai il prefisso dell’Albania?» sfotte Simone.
«No, ma perché? Vive qua vicino… non credo….» mi guarda un po’ confusa Antonella.
«Sta scherzando» la rassicuro «anche perché è geloso, Spartak è un imprenditore, lui per adesso un libero professionista sottopagato! Il numero è nell’agenda sotto la “e” di elettricista».
Domenica mattina mi sveglio con uno strano senso di angoscia. Penso ad un po’ di nostalgia, penso alla tristezza che di solito mi genera il mese di Novembre, con la sua pioggia e il suo grigiore. Già, la pioggia! Ma non sarà un po’ troppa mi chiedo.
Ascolto la radio locale, guardo i bollettini on line ma sono tutti rassicuranti, “non si registrano criticità sul territorio regionale e, al più, il possibile verificarsi di forti rovesci può creare disagi al sistema fognario e lungo la rete idrografica”.
Ma il lunedì mattina, appena accesa la radio, compagna abituale della mia uscita dalle braccia di Morfeo, capisco e realizzo la mia angoscia. Il bollettino on line segnala le possibili esondazioni a Vicenza, ma sulle radio locali rimbalza la notizia che l’acqua è già arrivata in città. Apprendo del preallarme delle 21 di Domenica, quando il Bacchiglione raggiunge il livello di 4 metri. Alle 22:12 è a quota 4,70 metri: scatta l’allarme. Alle 4:15 viene chiusa la strada dei ponti di Debba, alle 4:39 viene segnalato che viale Diaz è allagato e alle 4:59 lo è anche viale Ferrarin, area storicamente ritenuta non esondabile. Alle 6:40 vengono chiuse contrà Torretti e Vittorio Veneto che cominciano ad allagarsi e dove vengono fatti evacuare i locali della Croce Rossa. Di lì a poco crolla il parapetto di via Rumor, dando così sfogo al fiume che ha via libera per arrivare ad allagare piazza XX Settembre.[i]
Incredibile, in così poco tempo dal preallarme, il fiume ha sorpassato il livello di 5,70 metri esondando, travolgendo tutto, da Vivaro a Vicenza, passando per Cresole e Rettorgole.
Ancora non realizzo la portata della catastrofe, penso solo al mio ufficio, a due passi dal Ponte degli Angeli, al piano terra, appena finito, sicuramente allagato, all’archivio, alle forniture arrivate venerdì già da buttare. Mi pesa! Troppo. Avevo appena finito. Adesso devo rincominciare, mi sento devastato.
Poi, con il passare del tempo, il mio scoramento cresce, capisco. Capisco che il mio dramma personale è poca cosa. E’ una vera tragedia, si parla di dispersi, sfollati, danni alle case, ai negozi, alle officine, ai laboratori, in settantadue ore è stata messa in ginocchio l'intera economia regionale.
Decido di reagire. Appena il tempo lo permette cerco di raggiungere l’ufficio e di nuovo capisco. Capisco la dignità dimostrata dai vicentini colpiti dall'alluvione, centinaia le persone in fila nei ritrovi organizzati dalla Protezione Civile per una pettorina, stivali e guanti, per affrontare tutti insieme la disperazione e collaborare alle operazioni di pulizia. Mi sento una merda.
Provo a contattare Simone, Antonella, Spartak, ma niente, nessuno è raggiungibile.
Arrivo in contrà XX Settembre, è desolante. Intenso odore di fogna, fango, cumuli di oggetti, scaffali, libri, vestiti, c’è di tutto. Incrocio lo sguardo del proprietario del bar pasticceria, che mi saluta con un gesto, ma senza smorfia, come fosse distaccato da tutto, come se stesse soltanto aspettando di svegliarsi da quell’incubo.
La prima impresa è provare ad aprire la porta dell’ufficio. Il parquet è saltato, costringendomi a fare acrobazie per entrare e dare un’occhiata ai locali. Il segno del fango arriva giusto a sommergere le Bisce d’acqua, la mia stampa preferita di Klimt appesa in sala riunioni. Che ironia, vero?
«Ingegnere!» mi saluta Spartak dallo spiraglio di porta aperta. «Vuole una mano? Sono con degli amici… abbiamo appena finito un turno, ma per lei questo e altro. Sempre se non sporchiamo entrando con gli stivali melmosi!».
«Fai poco il simpatico e ricordati che devo ancora pagarti il saldo del lavoro… vediamo se lo faccio passare come beneficenza! Tanto più che manca pure la corrente oggi!». Mi sorride ed entrano.
Con i tre albanesi al lavoro, tutto sembra più semplice. Simone, che ha visto la chiamata, ci raggiunge e un paio d’ore riportiamo un po’ di ordine e pulizia nell’archivio e nel ricevimento.
«Ci vorrebbe un caffè, un tè, qualcosa di caldo, ho l’umido nelle ossa» borbotto tra me e me, ma vedo gli occhi di Spartak illuminarsi. Sale le scale a tre alla volta, forse sospinto dal mio urlo «dai, ma lo fai apposta? Su era rimasto pulito!». Silenzio.
La mia attenzione viene però attirata dalla strada, niente di particolare, viva, di una vita artificiale, ma quasi normale. Squadre di volontari di tutte le età, dal ragazzino al pensionato, Pompieri, Protezione Civile, tutti ad aiutare chiunque ne abbia bisogno. Addirittura c’è uno strillone davanti al negozio di famiglia «Vendiamo tutto a metà prezzo!».
Mi ridesta dai pensieri Spartak che esulta «Sono un genio!».
«Pure!» enfatizza.
«Testa secca, ho fatto funzionare la macchina del caffè con il gruppo di continuità!».
«… e nel mio ufficio c’è lo scatolone con le cialde! L’ho portato su venerdì…» replica ancora incredulo Simone.
A quel punto ignoro i festeggiamenti, esco in strada, raggiungo il proprietario del bar pasticceria e gli chiedo se gli va un caffè. Non ho ancora finito di parlare che già mi pento di come suona la domanda. Si gira, serio, probabilmente non disposto alle prese in giro, ma mi correggo subito.
«Siamo riusciti a far ripartire il distributore automatico, se volete fare cinque minuti di pausa, un caffè caldo magari aiuta».
«Volentieri,» risponde «sono in crisi di astinenza. Chiamo il mio vecchio che di sicuro gradisce».
Ci sistemiamo in sala riunioni, anzi, meglio, la inauguriamo, tanto che scatto una foto con il telefonino accendendo qualche sorriso.
Il caffè non è quello del bar ma ci dà una mano a rilassare i nervi.
«Come mai ha scelto Vicenza per i suoi affari?» mi incalza il proprietario del bar «ma soprattutto di cosa si occupa? Non ha ancora messo nemmeno una targa».
«Vero, non ho ancora capito cosa scriverci…».
«E’ importante pensarci bene,» mi interrompe il vecchio «guardate cosa c’è scritto in quella!» indicando una iscrizione commemorativa sull’altro lato della strada. «”Contrà venti Settembre, a ricordo della conquista di Roma. 1870”, non solo l’abbiamo strappata i Papi, ma l’abbiamo fatta anche capitale. Adesso non si ricorda nemmeno di noi! Solo parole inutili…»
«Nemmeno ci governasse Cetto La Qualunque…» spara il proprietario del bar sorridendo, interrompendo il padre, forse per non perdere l’atmosfera leggera che si era creata.
«Chi?» domanda il padre stupito, e Simone gesticolando spiega «Il politico calabrese corrotto di Antonio Albanese, quello di “I have no dream, ma mi piace ‘u pilu”» e parte una risata generale, interrotta dallo squillo del mio telefonino.
«Oi, babbo, eccomi» rispondo.
«Sei impegnato? Volevo dirti che abbiamo trovato l’acqua, a sessantacinque metri. Il rabdomante aveva detto trentacinque, mi era venuta voglia di legargliele al collo quelle bacchettine magiche…».
«Aspetta, aspetta, ripeti che non capito bene» lo interrompo mettendo il viva voce nel silenzio dei riuniti.
«Ti dicevo che abbiamo trovato l’acqua a…» e riparte una risata fragorosa generale.
«Michele, ma cos’è questo casino?».
«Niente, solo che se venivi a trovarmi, te la davamo noi l’acqua. Pensa che nel mio ufficio è arrivata a due metri!».
«No, non ci posso credere. Avevo sentito il Tg, ma non pensavo… Ma stai bene?» chiede preoccupato.
«Tranquillo, tutto a posto. Ti chiamo stasera con calma.».
Ecco. Credo che un domani, quando dell’alluvione non resterà che una riga sporca sul muro, questa riunione sui generis la ricorderò con piacere.
Adesso mi sembra solo un attimo strappato alla disperazione di questa catastrofe.


[i] La cronologia degli eventi è tratta dal sito del Comune di Vicenza.


giovedì 11 novembre 2010

PENSIERI SULLO SPOT DELLA "DOLCE MORTE"

“La vita è questione di scelte… Ho scelto di sposare Tina, di avere due bellissimi figli … Quello che non ho scelto è di essere un malato terminale. Non ho scelto di morire di fame perché mangiare è come ingoiare lamette per la barba e certamente non ho scelto di vedere la mia famiglia vivere tutto questo con me. Ho fatto la mia scelta finale. Ho solo bisogno che il governo mi ascolti.”
Questo il testo dello spot per l’eutanasia realizzato dal gruppo “The Works” di Sidney per l’Associazione Exit international e proposto alle televisioni di Australia e Canada. In Australia, l’autorità che vigila sulle televisioni (la Free TV Australia’s commercial Advice) ha nelle scorse settimane bloccato la messa in onda del video.
La versione italiana, curata dall’Associazione Luca Coscioni e dal Partito Radicale Nonviolento, transnazionale e transpartito, sarà trasmessa da Telelombardia, prima televisione in Italia, anche se la messa in onda è subordinata al parere dell’Authority per le telecomunicazioni.
La mia intenzione non è quella di affrontare il tema dell’eutanasia, forse non ne sarei in grado e, più che un post, servirebbero un paio di tomi, ma lo spot in se per se.
Il Codice penale sanziona con chiarezza l’«omicidio del consenziente», la fattispecie sotto la quale ricadono eutanasia e suicidio assistito. Permettere che si pubblicizzi un reato attraverso i mezzi di comunicazione dovrebbe essere inammissibile ed è quindi lecito attendersi che l’Autorità garante delle comunicazioni non dia il via libera alla messe in onda. Occorre anche precisare che nello spot si chiede ascolto al Governo, ma sarebbe più giusto riferirsi al Parlamento, vista la trasversalità di opinione dimostrata dalla politica su questo argomento.
Ma lo scopo dello spot è proprio quello di cambiare le regole, quello di renderci padroni di poter fare una scelta del genere (ovviamente se in quella situazione, nel pieno delle proprie facoltà mentali, se ne è capaci), quello che non sia lo Stato o il Vaticano ad imporcela (a noi ed alla nostra famiglia). Non invita a praticare di nascosto l’eutanasia, a compiere un reato: lancia una campagna pubblica per cambiare una legge. Si rischia di confondere il divieto all’azione (l’eutanasia) con il divieto a chiedere una modifica legislativa che renda legale l’azione.
Sono anche dell’opinione che con uno spot del genere sia controproducente, tende a sostituire l’emotività al ragionamento, immagini forti come “ingoiare lamette per la barba” non aiutano un dibattito così delicato. E poi insomma questi temi richiederebbero “una trattazione che non sia affidata a una forma che è quasi come la pubblicità di un prodotto qualsiasi” (Cit. Monsignor Gianfranco Ravasi).
E’ intervenuto sull’argomento anche Umberto Veronesi, che ha dichiarato che ormai l’eutanasia è un argomento che non si può più ignorare, “è un problema dibattuto e su cui non si possono avere posizioni definitive. Ma non si può ignorare che quello che hanno già fatto Olanda, Belgio e Lussemburgo, o Germania e Scandinavia dove è stata depenalizzata, cosa che sta per accadere anche in Spagna”.
Non si può neanche ignorare e tollerare che, come ha aggiunto sempre Veronesi a margine di un seminario, "succede che i pazienti la chiedono e spesso viene praticata in modo sotterraneo e nascosto perché la legge la vieta".
Il rapporto Eurispes 2010 evidenzia come il 67% degli italiani sia favorevole all’eutanasia.
Forse è l’ora che ci si rifletta davvero su questo argomento e che ognuno faccia i conti con la propria coscienza e la propria etica, magari a mente fredda, dopo che casi come quello di Welby si sono sedimentati e lontano da bombardamenti mediatici.

martedì 9 novembre 2010

LO SPLENDORE DEI DISCORSI, GIUSEPPE ALOE

In seconda di copertina si legge “In questo noir atipico, romanzo-monologo a orologeria, Giuseppe Aloe, con scrittura raffinata e potente, dà voce a un personaggio inedito che lascia turbati. Per il senso contemplativo e oscuro del mondo, per lo splendore-terrore dei suoi discorsi”. Nessuna presentazione sarebbe più calzante.
Il romanzo si apre con quello che sembra un elogio, più che allo splendore dei discorsi, alla superficialità, all’eccessivo desiderio di attuare una propria perfetta immagine, concetto comunemente racchiuso nel termine vanità. Questo desiderio, questa smania è coma una miccia che accende ira e crudeltà.
Le persone normali cercano di controllare questi eccessi, li custodiscono nel proprio io, ma restano come tizzoni sotto una coltre di cenere, come smanie soffocate da una normalità apparente. Si diviene criminali non per brama di potere, per denaro o per erotismo, ma per lo sfogo di queste smanie. Il resto semmai non è altro che una conseguenza.
Queste riflessioni danno ad Aloe la scusa per sviluppare, su una trama narrativa, oserei dire, di flebile tessitura e surreale, una meditazione sulla vita, sul male e soprattutto sul destino.
L’ingegnere, protagonista del romanzo, che si divide tra lavoro e una famiglia come tante, “tendenzialmente infelice”, con rapporti di “misurata crudeltà” capaci di scoppiare in improvvise armonie in grado di riempire l’esistenza e il cuore, si trova a essere protagonista di un male ritenuto intollerabile ed ingiusto sopra ogni possibilità di intendere, la morte di una figlia in un banale incidente sull’altalena.
Questo dramma spazza via tutto, scatena sofferenza e rancore, sposta il protagonista su un altro piano di osservazione della vita, quello di chi è in debito con il male, lo rende disponibile alla violenza come risposta a quel male insensato, senza più alcun tipo di pietà. Avvicinato da un’organizzazione criminale, diventa sicario, il migliore, senza nulla da perdere e armato di tutta la disperazione possibile.
Sullo sfondo dei numerosi delitti, l’ingegnere ed Aloe approfondiscono il pensiero filosofico e le riflessioni sul mondo, con riferimenti espliciti a Kafka. Ma arriva il colpo di scena che, come in ogni buon romanzo, lascia di stucco il lettore. In questo caso lo stupore è sincero, il colpo di scena non è quello tipico di una narrazione di un noir, ma è a livello filosofico.
L’ingegnere conoscerà un'anziana donna e un sosia di Kafka che gli faranno capire il senso della vita, gli faranno scoprire lo “splendore” dei discorsi e della vita anche nei suoi aspetti meno eccezionali.
A me è piaciuto, anche se non avrei mai pensato di leggere un libro dedicato alla fragilità dell’esistenza umana “mascherato” da noir.

Giulio Perrone Editore S.r.l., 2010, 251 p, € 15,00

domenica 31 ottobre 2010

CRISTINA NUÑEZ e l'autoritratto

Il The Private Space Gallery di Barcellona (http://www.theprivatespacebcn.com/home) dal 04/11 al 25/11/10 espone Cristina Nuñez con i suo lavoro Higher Self (sé superiore), un Self-Portrait Workshop.
Autoritratti? Io conoscevo la fotografa, ma, a quanto pare, per un aspetto marginale del suo lavoro, quando insegnò ai tossicodipendenti ed ai detenuti del carcere di San Vittore a Milano a fare fotografie. Un esperimento curioso, mettere in mano a queste persone, che in alcuni casi non sanno ne leggere ne scrivere, uno strumento di comunicazione e di espressione così efficace, aiutarli a stare meglio con l’arte fotografica.
Scopro solo adesso che la Nuñez, nata a Figueres ma italiana di adozione, è autoritrattista da 20 anni e insegna autoritratto fotografico come metodo per incentivare la creatività a Forma, Domus Academy, Accademia di Belle Arti di Bologna e presso la Scuola Steiner di Milano. Nel 2007 ha pure fondato con Davide Catullo Selfportrait Performance, un progetto di formazione aziendale con l'uso dell'autoritratto.
Ma perché questa attenzione verso l’autoritratto? Semplice, per l’artista è una terapia. Il self-portrait permette di scandagliare aspetti di noi stessi che non conoscevamo.
"Ogni autoritratto, al di là dello sguardo sulla propria interiorità, è sempre una sorta di performance. È assolutamente impossibile costruire la propria immagine in modo inconscio. Il nostro agire o recitare è mediato senz'altro da quello che noi vogliamo che gli altri vedano di noi. Nonostante questo esiste uno spazio, un rapporto tra sé e sé che rimane, a mio avviso, indipendente dallo sguardo dell'altro e che racchiude un intenso dialogo interiore di percezione, pensiero, giudizio e accettazione. Un processo meraviglioso che non ha bisogno di parole, perché l'opera contiene tutto e non ha bisogno di essere tradotta per colpire nel segno." (*)
Non fa una piega e nell’era di Internet e dei social network queste autorappresentazioni, queste performance, pullulano. Infatti l’artista:
"Perché il processo sia completo, però, è necessario (anzi, direi imprescindibile) poterlo comunicare agli altri. L'artista è in un certo senso separato dal mondo - perché in costante lavoro introspettivo - e questo è spesso causa di disagio esistenziale. Nel momento in cui l'opera può essere intimamente condivisa da un pubblico, esiste per lui la possibilità di liberarsi dai confini dell'io: e come nello Zen, diventare tutt'uno col cosmo." (*)
Però non è sempre così, non tutti sono inclini agli sguardi e all’obiettivo. La Nuñez spiega:
"Sono moltissime le persone che temono l'obiettivo. Nella maggior parte dei casi si tratta, a mio giudizio, di un rapporto difficile con la propria immagine, determinato dalla differenza tra la nostra immagine interna (che rimane più o meno ferma all'adolescenza o alla giovinezza) e quella esterna che ci mostra lo specchio. Dice Barthes che la fotografia non rappresenta né riflette la realtà, ma le dà significato. Noi non siamo il nostro autoritratto, siamo molto di più.
Dunque l'autoscatto può diventare uno splendido strumento per unire immagine interna ed esterna, trovare la propria essenza anche attraverso il nostro corpo e il nostro volto attuali." (*)
Semplicemente meravigliosa questa filosofia con cui confrontarsi, questa nuova sfida, questo viaggio dentro se stessi, alla scoperta delle proprie emozioni, radici e relazioni e, in definitiva, del proprio posto nel mondo.
Il suo metodo, rintracciabile sul sito Self-portrait experience, dove ci si può anche inscrivere al Self-portrait blog, è strutturato in tre parti: Me stesso (Myself), esercizio che prevede che il soggetto realizzi ritratti che esprimano le proprie emozioni, competenze, identità potenziali, ma anche il corpo fisico, i posti e le persone significative della propria vita; Me e gli altri (Myself and the others) che consiste nell'autorappresentarsi insieme ai familiari, agli amici, ai colleghi di lavoro; Me e il mondo (Myself and the world) che consiste invece nell'autorappresentarsi con i membri del proprio gruppo, della propria comunità, ma anche con le persone sconosciute o di altri gruppi e comunità.
A voi la curiosità dell’approfondimento.
Una domanda. Siete ancora sicuri dell’efficacia rappresentativa della vostra miniatura su Facebook?

(*) Intervista a Cristina Nuñez, L’autoritratto fotografico come autoterapia, pubblicato da Emanuela Zerbinatti per Blogosfere.