martedì 5 ottobre 2010

IL PESO DELLA FARFALLA, ERRI DE LUCA

Lui, il re dei camosci, come era chiamato in paese, cacciatore di frodo che tutti conoscevano e proteggevano, senza mandato di cattura perché in fondo ogni villaggio ha un santo e un bandito. L’alpinismo per lui era una tecnica al servizio della caccia, un espediente per non farsi fiutare dai camosci, per gli altri le sue erano imprese eccezionali. “Nelle imprese la grandezza sta nell’avere in mente tutt’altro.”
Il camoscio, orfano per mano del cacciatore, entrò nel branco e ne divenne subito re, sconfiggendo il maschio dominante; un esemplare raro, maestoso, indomito e selvaggio, capace di ergersi sulla sua vallata e di uccidere il rivale o il predatore pericoloso per il suo branco.
Entrambi personaggi schivi e solitari, entrambi alle prese con le troppe stagioni passate e con l’incapacità di accettare il declino, ma con la forza e il coraggio di affrontare l’inevitabile morte. Già,  la morte, filo conduttore del racconto, ma non quella delle Sacre Scritture che sovente De Luca ha tradotto, ma quella vissuta dagli uomini, quel destino ineluttabile: “La sua vita al passo di stagioni era andata col mondo. Se l'era guadagnata molte volte, ma non era roba sua. Era da restituire, sgualcita dopo averla usata. Che creditore di manica larga era quello che gliela aveva prestata fresca e se la riprendeva usata, da buttare.”
De Luca con rispetto entra in queste due solitudini, calandole in una venerata montagna, uno dei pochi luoghi della terra in cui è ancora possibile essere soli. Analizza la loro condizione arrivando ad elogiarla e compatirla: “In ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove. Sono una quota sperimentale che va alla deriva, dietro di loro la traccia aperta si richiude.”
La loro storia è quella di uno scontro silenzioso, il cui epilogo ribalta la nostra percezione di vittoria. Il vincitore disprezza il suo istinto di ladro di vite e prova un grande senso di sconfitta, niente sarà più come prima, mentre il vinto, dopo aver risparmiato l’avversario, capisce che quello è un giorno ed un modo perfetto per morire.
Questo abbraccio mortale ha un lieto fine, “una carezza lieve, gentile, anche se si chiama morte”(CIT. Alberto Pezzini, La Rivista del CAI).
Da non sottovalutare il secondo racconto breve del libro, Visita a un albero, un cirmolo del Fanes, parente solitario dell’abete, che offre i suoi rami agli inevitabili fulmini di cui è bersaglio a 2.200 m di quota, quasi sapendo di essere un intruso dove le forze e gli elementi si abbracciano, dove il cielo fa l’amore con le rocce. Per De Luca quella visita annuale è una fonte di ispirazione, una “proteina” per la scrittura.
Editore Feltrinelli, 2009, 70 p, € 7,50

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