venerdì 2 dicembre 2011

La forza del destino di Marco Vichi

“Non mi ha mai appassionato l’abilità di costruire grandi trame; preferisco la storiella senza trama che, in realtà, contiene la profondità dei personaggi, la visione di un momento storico o, nell’attualità, lo sguardo preciso su una certa realtà”[1].  Questo pensiero di Vichi ci da una chiave di lettura di tutti i suoi lavori, compresa l’ultima avventura del commissario Bordelli, La forza del destino.
La sua narrativa non ha le tinte di un giallo, non ha trame ingarbugliate, indizi e colpi di scena che ti invoglino a sfidare l’autore nell’arrivare alla soluzione dell’intreccio, ma al contrario ha l’aspirazione al racconto di periodi storici, di persone realmente incastonate nelle proprie atmosfere, di rapporti interpersonali, di difficoltà generazionali, insomma, ha la forza del romanzo sull’animo dell’uomo. Non stupore, quindi, ma emozione è quello che se ne trae dalla lettura delle sue pagine.
La brutta storia di Giacomo Pellissari, ragazzino stuprato e ucciso da dei potenti che ancora una volta avevano giocato con la vita di un innocente, e la violenza su Eleonora, che pesava come un macigno sulla coscienza del commissario, sono una scusa per andare a frugare negli abissi dell’uomo e portare a galla un’intera visione del mondo e della vita.
Un  po’ come in Maigret o Montalbano, quello che stupisce è l’idealismo di Bordelli, il suo bisogno di soccorrere l’uomo, sofferente in un mondo ingiusto, la sua aspirazione ad essere Davide con la fionda in mano pronto a colpire il gigante Golia. Il senso di giustizia del commissario non è quello dettato dalle leggi, ma quello del bene e del male nel contesto sociale. Partigiano che ha lottato per liberare l’Italia e restituirgli un’equa giustizia non può che essere deluso dal mondo che lo circonda, non riesce a condannare a livello umano chi delinque per necessità o per fame.
Il commissario Bordelli disegnato da
Werther Dell'Edera in Morto due Volte
«Il mondo era uno schifo, e pensare di guarirlo era un’illusione. Quello che si poteva fare era ricucire i piccoli strappi, anche se l’intero tessuto era marcio. Era solo un modo per non rassegnarsi alla sconfitta, per non soccombere, per non lascare la regola senza eccezione. Una volta tanto gli intoccabili avrebbero pagato per le loro colpe, fino alle estreme conseguenze.»
La piccola Firenze degli anni ‘60, fatta di persone con semplici rapporti, di collettività, messe a dura prova dal dopoguerra e catastrofi come l’alluvione, e di microcriminalità indubbiamente molto diversa da quella che siamo abituati a conoscere nella nostra epoca, danno una mano a Vichi nel suo romanzare e a Bordelli nella sua personale esegesi della giustizia.
Personalmente reputo La forza del destino un bel libro, non al livello di Morte e Firenze, ma comunque una piacevolissima lettura fatta di atmosfere, colori e odori che sa davvero emozionare. Tuttavia non condivido l’eccessiva spinta verso il “bene a qualsiasi costo”, non condivido l’arrivare a farsi giustizia da solo laddove la legge nulla avrebbe potuto, macchiandosi addirittura di tre omicidi (senza contare l’abuso di ufficio, se me lo passate, per l’uso della volante della polizia e il contrabbando di soldi falsi in cambio del silenzio del Botta, complice dell’ultimo omicidio). Soprattutto poi non mi piace l’avere come mandante, o meglio come complice, il destino, capace di giustificare le azioni sgombrando il campo dalle difficoltà nel compierle.
In sostanza l’ho un po’ con Bordelli perché capisco il suo lasciare il ruolo di commissario, «Quando non si rispettano le regole del gioco, è bene smettere di giocare.», ma non digerisco proprio il suo svilire il senso di lealtà e giustizia cui ci aveva abituato, scendendo al livello così basso, quello dei tre assassini, sebbene animato dai più nobili intenti. La forza del destino avrebbe potuto offrire vendette migliori e senza macchiare Bordelli di azioni così infami. Non siamo in guerra, non può Vichi paragonarlo a un partigiano che può evitare un massacro di bambini sparando a un nazista, facendosi addirittura dare l’avvallo da un uomo di chiesa, padre Lenti (pag. 281), mentre cerca di rimproverargli che «L’unica giustizia è quella di Dio, a cui l’uomo non può sostituirsi.».
Ringrazio tantissimo Vichi per avermi di nuovo regalato quelle atmosfere semplici ma goderecce come le passeggiate nei boschi, le cene con gli amici, libro, camino e bicchiere di vino. Ancora, lo ringrazio per le ricette culinarie del Botta[2], ma soprattutto per i consigli letterari che per la  prima volta ci ha dato, da Un eroe del nostro tempo di Lermontov a Memorie dal sottosuolo e L’eterno marito di Dostoevskij.
Un paio di curiosità trovate nel libro. Se vi chiedo chi è Lorenzo degl’Innocenti? «.. si mi sembra… dai, si quello… cacchio, ho appena finito il libro, dovrei ricordare… ah! Ecco! Il vigile notturno che da l’allarme per l’omicidio dell’Avv. Beccaroni!»… giusto, semplificando non poco il lavoro di Bordelli, ma credo sia anche un tributo di Vichi a quel Lorenzo degl’Innocenti, voce di Bordelli nell’audiolibro ed in tutte le sue “apparizioni pubbliche”. La seconda nota, un po’ meno goliardica, si trova al cimitero di Ponte agli Stolli dove Vichi ci riporta l’incisione di Norina Macelloni, morta il 30 febbraio 1919.
Visto il finale del libro adesso non resta che aspettare la prossima avventura del commissario Bordelli, magari alle prese con il rivoluzionario sessantotto approfondendo il tema delle incomprensioni generazionali già accennato nel Il nuovo venuto. Comunque, alla presentazione del libro, Vichi ed il suo editore hanno parlato dei progetti futuri, come l’uscita di un nuovo lavoro, senza Bordelli, dal titolo “La vendetta”, e di una antologia sulla follia.
Staremo a vedere… meglio staremo a leggere!... anche perché, nonostante il fantasticare dei sui fan sul vederlo in TV[3], non credo che questo romanzo sia cinematografico.






[1] Intervista a Vichi riportata nella tesi di laurea di Laura Fresina, “Il giallo in Toscana: autori, protagonisti, paesaggi”.
[2] Sta diventando famosa la Bistecca del Botta, col latte e il finocchio: “Metti le bistecche di maiale (meglio se non troppo alte) in una padella con un po' d'acqua e falle cuocere bene da tutti e due i lati, finché l'acqua non è evaporata quasi del tutto. Aggiungi un bicchiere di salsa di pomodoro e rigira più volte le bistecche. Poi aggiungi un bicchiere di latte e una manciata di semi di finocchio, e quando la salsa comincia a bollire abbassa il fuoco e fai ritirare il liquido senza coperchio, fino a che la salsa non diventa densa al punto giusto. Poi togli la padella dal fornello, coprila con un coperchio e lasciala in pace per un paio di minuti."
[3] Un cast che condivido con gli amici del gruppo Il Commissario Bordelli su facebook è:
Bordelli: Ennio Fantastichini (me ne assumo la paternità!), Andrea Giordana, Favino
Rosa: Stefania Sandrelli
Diotivede: Paolo Poli
Botta: Alessandro Haber
Dante: Gigi Proietti

sabato 12 novembre 2011

Warrior (2011)

La locandina
 Regia: Gavin O'Connor.
con: Nick Nolte, Tom Hardy, Joel Edgerton, Jennifer Morrison, Kevin Dunn, Frank Grillo, Kurt Angle, Jake McLaughlin

Mamma mia che film! Un capolavoro.
Calma, ascoltate questo pezzo mentre leggete,  About Today – The National  di Mark Isham (http://youtu.be/tDeLWUxvDic). Iniziamo.
Ero pronto, quasi controvoglia a dire la verità, a vedere un film sulle arti marziali, votato alla fisicità e alla potenza visiva dei combattimenti, alla Van Damme per intendersi.
Sapevo che il regista è O’Connor, conosciuto con “Pride and Glory”, film che ha deluso qualcuno ma non certo uno sfegatato di Edward Norton come me.
Sapevo che gran parte delle scene erano girate con steadycam, l’odiata telecamera a mano, che se usata disgraziatamente è capace di rovinarmi la serata.
Paddy Conlon (Nick Nolte)
Ma già dalle prime scene si percepisce che c’è molto di più. Il film si apre con una auto che vaga mentre la radio recita parole di “Moby Dick”. Dall’auto scende il nostro capitano Achab, uno strepitoso Nick Nolte nei panni di Paddy Conlon, ex pugile alcolizzato e violento, capace di distruggere una famiglia. Ma è proprio la sua interpretazione a stupire. Ti aspetti in lui la sete di vendetta come nel personaggio di Melville, ma capisci subito dall’incontro con il figlio che la sua maledetta balena bianca è la redenzione, la ricerca del perdono, unica cosa che possa fargli far pace con quello che è stato.  Bene fa O’Connor a far apparire il titolo del film sulle sue spalle a caratteri cubitali, “WARRIOR”, perché sarà lui il vero guerriero del film.

Tommy (Tom Hardy)
Su questo sfondo vengono presentati gli altri due protagonisti, sia della disgrazia famigliare che del film, i suoi figli. Tommy (la rivelazione Tom Hardy già protagonista in “Inception” e “Black Hawk Down” di Ridley Scott), ex-prodigio del Wrestling, marine disertore dalla guerra in Iraq, che ha perso per la seconda volta la sua famiglia in guerra per colpa del fuoco amico, un ragazzone introverso, impacciato, con lo sguardo basso e l'aria da cane bastonato, uno alla Rocky per intendersi (lo evidenzia il regista mettendo in bocca ad un poveraccio, campione mondiale dei pesi mesi, che perderà i sensi dopo un suo destro, lo sbeffeggio “hey Rocky, che fine hanno fatto Paulie e Mickey?”). Ma quando sale sul ring la sua rabbia esplode come una bomba, una violenza cieca impressionante, fulminea e devastante… fa veramente paura.

Brendan (Joel Edgerton) e 
il coach Frank (Frank Grillo) 
L’altro, Brendan (Joel Edgerton), ex-lottatore diventato professore di fisica, che ha scelto come scudo la realizzazione di una propria famiglia, padre di due figlie, una malata di cuore, a cui la banca sta portando via la casa, un tipo alla Cinderella Man, con la rabbia e la grinta di chi combatte per qualcosa. Si presenta sul ring come l’antitesi del fratello, niente istinto, ma fredda lucidità e calma nella ricerca del momento giusto, tant’è che viene allenato da un coach sui generis, che associa al combattimento l’”Inno alla gioia” di Beethoven per infondere tranquillità mentale, la sola capace dominare la rabbia (a proposito sentite questo capolavoro di Isham, Listen to the Beethoven, http://youtu.be/oI7zGCA3V1w).

Tommy nella gabbia
Con storie diverse, raccontante dal regista con identica dedizione, senza preferenze (non come aveva fatto il padre preferendo il vincente Tommy), arrivano al torneo di Sparta, un torneo di MMA (Mix Martial Art), una particolare disciplina sportiva il cui regolamento consente l’utilizzo sia di tecniche come calci, pugni, gomitate e ginocchiate, sia di tecniche di lotta più articolate, quindi con combattimenti nella in una gabbia di ferro molto spettacolari e adatti al cinema. Il premio all’unico vincitore saranno cinque milioni di dollari.


A questo punto del film, a un’ora dalla fine, O’Connor, ti fa già capire quale sarà la fine, chi combatterà in finale del torneo e chi dei due vincerà. Questo di solito fa perdere di interesse al film, ma qui sortisce l’effetto contrario, fa perdere di interesse al contorno del film, la lotta, e pone l’attenzione sulle emozioni dei protagonisti. Gli sguardi, i pugni, le schienate diventano trama narrativa, tutto il sentimentalismo passa attraverso i gesti, ci si emoziona non con le parole o con i drammi, ma con i cazzotti.

Il punto di incontro tra le due storie, lo scontro finale
Gli incontri diventano comunicazione, parlano dell’America di oggi, del fallimento del sogno americano basato sulla famiglia, la casa e i soldi, da un lato per la crisi economica e dall’altro per il trauma collettivo di una guerra senza fine, quella irachena. Da sempre gli sport come la boxe sono un ottimo veicolo per portare in scena la lotta dell’uomo singolo contro il mondo, ma in Warrior è tutto veramente perfetto, armonia di gesti, sguardi e fisicità… quando esci dalla proiezione non avresti voglia di indossare guantoni e scaricare l’adrenalina, cerchi solo di contenere grosse emozioni e mascherare qualche lacrima.
Il momento emotivamente più devastante, il combattimento finale, finisce con un piccolo tocco sulla spalla, dopo la violenza dei colpi, un semplice gesto affettuoso chiude l’incontro, anzi meglio chiude il dramma di due fratelli separati da troppo tempo finalmente di nuovo uniti. Escono abbracciati, uno a sostegno dell’altro, tra la folla, vengono verso di noi, ma non si fermano, ci passano e scompaiono… ero talmente scosso emotivamente che ci sono rimasto male perché non sono stati immortalati in quel momento così importante!
Lo strepitoso "capitano Achab"
E comunque, mentre ognuno di loro ha trovato e sconfitto la propria balena bianca, sullo sfondo il padre, li guarda abbracciati e si arrende alla sconfitta, con un sorriso sarcastico a celare il suo grande dolore per un perdono che non otterrà mai!






Ecco la lista tracce della colonna sonora (http://youtu.be/EzMALpP4r4g), composta e prodotta da Mark Isham:
Soundtrack front
1. Listen to the Beethoven
2. Paddy & Tommy
3. Sparta – Night One
4. I Can’t Watch You Fight
5. Koba
6. Hero
7. Brendan & Tess
8. The Devil You Know
9. Stop the Ship (Relapse)
10. Warrior
11. Brendan & Tommy
12. About Today – The National

martedì 8 novembre 2011

This must be the place (2011)

Scritto e diretto da Paolo Sorrentino.
con: Sean Penn, Judd Hirsch, Kerry Condon, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Frances McDormand.
 
Sean Penn nei panni di Cheyenne
Cheyenne è una rock star, celebre negli anni ottanta come leader del gruppo musicale Cheyenne & The Fellows, che nonostante si sia ormai ritirato dalle scene si veste e si trucca come quando saliva sul palco, ricordando sicuramente Robert Smith dei The Cure, con il look black, capelli cotonati, occhi truccati, rossetto fissato a lungo con un velo di cipria, smalto e Dr. Martens ai piedi. Io comunque ci ho rivisto anche un po’ di Ozzy e, parecchio, Johnny Depp in Edward Mani di Forbice.


Robert Smith frontman dei The Cure
 Con un preambolo del genere la colonna sonora appare molto importante e Sorrentino paga dazio ad una sua passione, i Talking Heads. This must be the place (http://youtu.be/Pekng82ME48) è il titolo di un loro pezzo contenuto in “Speaking in Tongues” del 1983 e David Byrne, oltre a curare la colonna sonora del film insieme al cantautore, per me sconosciuto, Will Oldham, interpreta il ruolo di se stesso nel film.
A me è piaciuta un sacco Lay & Love  dei The Pieces Of Shit (http://youtu.be/9Zg6svDmc6o), band fittizia con brani cantati da Michael Brunnock (ragazzo trovato su MySpace) e scritti dai due artisti.


Eve Hewson

In quanto a spunti musicali, poi, Sorrentino ha voluto abbondare, nel cast troviamo anche Eve Hewson, figlia di Bono Vox degli U2, nel ruolo di una gothic punk fan di Cheyenne a cui è scomparso misteriosamente un fratello.
Ma torniamo al film. Si articola in due fasi.
La prima statica, nella statica Dublino con un Cheyenne fermo nel suo esilio volontario in un piccolo mondo bloccato in un lutto strisciante, legato al fallimento del suo mondo di musica, senza arte, che nonostante tutto lo ha portato ad essere idolatrato ed ascoltato in contenuti che hanno portato solo alla depressione e alla distruzione di alcune vite di giovani deboli. Anche l’emergere di questo aspetto nella depressione e nell’ansia intrisa in Cheyenne, lo vedo come uno scotto da pagare alla francamente inutile esaltazione della contrapposta vena artistica di Bryne. A me lo spettacolo a cui assiste mentre piange il padre (non al suo capezzale ne al cimitero, ma in un locale mentre assiste ad un concerto!!!) in cui Bryne fa sollevare una scenografia mentre canta la canzone fulcro del film ha fatto solo ridere e messo un po’ di tristezza.
La vena artistica di Bryne
La spinta a superare ed a liberarsi della propria immagine viene data a Cheyenne dalla morte del padre, persona che si è rifiutato di conoscere perché aveva deciso in adolescenza che non lui gli voleva bene. La presa coscienza della vita del padre, ruolo che lui ormai non potrà più interpretare, e della sua perseveranza a vendicarsi di una umiliazione subita da un ufficiale nazista, aprono la rock star ad un viaggio introspettivo che lo porterà a diventare finalmente uomo e forse ad una accettazione del suo passato e delle proprie follie.
Si apre cosi la seconda fase, quella del movimento, quella della grande America, quella in cui si passa dal mondo fittizio della musica  a quello definitivo della Storia.  Cheyenne naviga verso New York (ha preferito vedere il padre già morto piuttosto che sfidare la paura del volo, proprio come un bambino, mentre al ritorno prende un aereo fumando una sigaretta, altra cosa di cui non aveva mai avuto necessità, proprio come i bambini) e inizia la ricerca del nazista, che il padre non ha mai portato a termine, e con una astuzia e preparazione che ancora adesso, a sipario calato, non riesco proprio a cucirgli addosso poiché in netto contrasto con i lineamenti costruiti sul suo personaggio, come fedeltà coniugale, altruismo, generosità e spontaneità, riesce ad avere successo, circuendo un amico facoltoso per farsi prestare il preziosissimo Pick-up, una vecchia insegnante di storia, moglie del nazista, e sua nipote, facendola innamorare.
Anche se sono impeccabili la fotografia di Bigazzi e la sceneggiatura di Sorrentino con dialoghi e perle di saggezza meravigliosi, qualcosa mi ha disturbato come dice spesso Cheyenne, ma differenza sua, ho capito cosa, la trama e la leggerezza delle troppe tematiche affrontate all’acqua di rose.
Seguiamo uno straccio di Olocausto, ma come il protagonista, Sorrentino sembra ammettere di non saperne poi molto, accenniamo appena altri temi su sfondo razziale, come quello degli indiani d’America, ridotti in silenzio nelle loro riserve sulle Montagne rocciose (ricordiamo il passaggio sul Pick-up al distinto e silenzioso signore indiano che scende di corsa e si addentra nella riserva… a proposito il furgone si chiama Big Horn, vi dice niente!) e addirittura penso di vedere nella scena del bisonte una rappresentazione della capacità dell’uomo di nuocere avendone provocato l’estinzione.
Insomma, un sacco di spunti anche interessanti (abbiamo addirittura conosciuto l’inventore del Trolley!!!), un sacco di riflessioni (l’innocenza della nipote del nazista, l’armaiolo filosofo che spiega il legame fra assassinio e impunità, la vendetta umanamente condivisibile unica capace di redimere un’umiliazione) trattate però in maniera discontinua e poco approfondita. Un potpourri di argomenti, trattati in ascensore o in un fast food, divertente ma un po’ deludente vista la presunta fama di opera d’arte.
Cheyenne e il suo trolley, la sua "coperta di Linus"
Poi, va bene che non sono un esperto, ma ho dovuto ragionarci molto uscito dalla proiezione per avere risposte a molte domande a cui non mi sembrava di aver avuto risposta.
Adesso che ci penso, una ancora mi è rimasta… mentre lui si sbronza a Jägermeister, un flash di regia ci fa vedere la moglie correre incontro a qualcuno che pare essere ritornato, ma chi? Il fratello della fan? Ma se la madre nelle ultime scene del film è ancora li alla finestra ad aspettarlo? Chi mi da’ una mano? (Scena finale http://youtu.be/-j8ggBWBx-M)
In chiusura la colonna sonora:
1.            Gavin Friday - Lord I'm Coming
2.            The Pieces Of Shit - Lay & Love
3.            The Pieces Of Shit - Open Up
4.            Mantovani & His Orchestra - Charmaine
5.            Daniel Hope, Simon Mulligan - Spiegel Im Spiegel
6.            Trevor Greene - This Must Be The Place (Naive Melody)
7.            David Byrne - This Must Be The Place (Naive Melody) (Live)
8.            Julia Kent - Gardermoen
9.            Jonsi & Alex - Happiness
10.          The Pieces Of Shit - Eliza
11.          Iggy Pop - The Passenger
12.          The Pieces Of Shit - You Can Like It
13.          Brooklyn Rider Achille's Heel - Second Bounce
14.          The Pieces Of Shit - If It Falls It Falls 
15.          Gloria - This Must Be The Place (Naive Melody) 
16.          Nino Bruno e Le 8 Tracce - Every Single Moment In My Life Is A Weary Wait
17.          The Pieces Of Shit - The Sword Is Yours

martedì 1 novembre 2011

Dedicata...

a noi che la mattina abbiamo bisogno di una danza maori per iniziare la giornata con un po' di grinta
a noi che ci vestiamo di nero per rispetto alla nostra sconfitta, non a quella dell'avversario come fanno gli All Blacks
a noi che aspettiamo che la musica tiri il filo giusto della marionetta che siamo diventati in balia di troppi padroni
a noi che viviamo il presente non vedendo l’ora che finisca, crediamo che il passato non conti e che il futuro... beh, godiamoci il presente perché c’è ben poco da sperare
a noi che ci sentiamo la somma di scelte sbagliate consapevoli che le lezioni si imparano sempre a posteriori, quindi non aiutino, e che crediamo che l’esperienza non è ciò che accade ad un uomo, ma ciò che ne fa di ciò che gli accade (Aldous Leonard Huxley dal film “A Single man “di Tom Ford)
a noi che ogni volta che troviamo qualcuno che ci ama vorremo cantargli alla Jim Morrison "Love me two times", ami per oggi e per domani, perché domani io non ci sarò, me ne sto andando, in guerra, con me stesso e con il mio carattere
a noi che ogni volta che investiamo su qualcuno ci troviamo riversi sull’asfalto ed è sempre più difficile rialzarsi, magari con in testa l’unico ritornello di “Karma Police” dei Radiohead che ci ricordiamo «… I lost myself… I lost myself… I lost myself…»
… e per te, che con il tuo passato troppo presente, che con i tuoi stupidi eccessi alla ricerca di considerazione e sicurezza che da solo non riesci a darti, non sei mai riuscito veramente a credere in…

Tempi Come Questi

Sono un'autostrada a una sola corsia
Sono quello che se ne va,
ma poi ti segue fino a casa
Sono un lampione che illumina
Sono una luce selvaggia che ti acceca col suo bagliore
e che brucia solitaria

E' in tempi come questi che impari a vivere di nuovo
E' in tempi come questi che dai e dai ancora
E' in tempi come questi che impari ad amare di nuovo
E' in tempi come questi che hai tempo ed altro tempo

Sono un nuovo giorno che nasce
Sono un cielo nuovissimo
a cui appendere le stelle stanotte
Sono indeciso,
rimango o me ne vado
e mi lascio tutto alle spalle?

E' in tempi come questi che impari a vivere di nuovo
E' in tempi come questi che dai e dai ancora
E' in tempi come questi che impari ad amare di nuovo
E' in tempi come questi che hai tempo ed altro tempo

lunedì 3 gennaio 2011

Chiudere con un sorriso

(Tutta opera di fantasia. Dopo essermi trasferito a Vicenza per amore -Bisce d'acqua-, essere stato lasciato -Un addio-, adesso non mi resta che superarla!)

Chiudere con un sorriso, si, lo so, sembra un’antitesi. Da sempre il sorriso manifesta serenità, benessere e apertura nei confronti di un'altra persona.
Per quanto mi riguarda è la distanza più corta tra due persone.
Sarà la serata, sarà che sono davanti al camino a leggere un libro, sarà che mi sono sorpreso a guardare fuori dalle ampie vetrate del salone. Che problema c’è? Nessuno. Fosse giorno, il mio pensiero avrebbe seguito l’andamento delle colline con i ricordi o magari il mio sguardo sarebbe stato attirato dal movimento di qualche animale o da qualche gioco di colori. Ma è notte, una di quelle buie, senza luna, e l’unica cosa che si vede dalle vetrate è il riflesso della mia immagine.
Introspezione. Ancora, si, ma meno fastidiosa del solito. Sarà che ho chiuso con un sorriso.
Nei mille volteggi che il mio inconscio mi fa fare ce n’è uno, soprattutto uno, il cui ricordo ancora mi fa sentire il vuoto nello stomaco, come sulle montagne russe o sull’altalena da bambino.
L’ultima volta che l’ho vista. A cena, a casa sua. Una di quelle serate strane in cui ogni cosa sembra avere lo stesso significato. La serata in cui, seguendo quelle maledette percezioni insensibili, ho cercato di relegare a normale, a quotidiano, qualcosa che normale proprio non era. “Ma perché?” ancora mi chiedo.
Una sola risposta ferma quell’altalena. La paura. Quella paura che si materializza come una nebbia fitta, nebulizzata per l’occasione dal peggior scenografo che conosco, capace di confonderti, di farti perdere,  che ti fa fare quattro volte il giro dell’isolato per riportarti al punto di partenza, senza riuscire ad arrivare veramente a lei.
Quando sono uscito da quella casa ho salutato con un sorriso, certo, ma che di sorriso aveva solo la mimica facciale. Mi devastava la consapevolezza di tutto quello che con lei avrei voluto fare, da ascoltarla a viverla nella sua vita, da sentirla ridere a goderla fino all’ultimo spasmo, da farla incazzare a guardarla dormire.
I giorni passano, il desiderio cresce, la consapevolezza opprime, fino a quando un giorno, come quando esci di casa e ti accorgi che l’inverno è finito, la nebbia si dirada, lo scenografo licenziato, e punto dritto a quello che so di volere . Ma lei non c’è più. Si è stancata della mia paura e, di più, ha capito che una persona con quelle paure non fa per  lei.
“L'errore annulla qualsiasi passato nell'istante in cui arriva a bruciarti qualsiasi futuro. L'errore azzera il tempo, qualsiasi tempo.”[1]
Ho provato a restare in piedi, ma “è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo”[2]. Ho provato a comunicare in mille modi, tutto inutile, non c’è più nessuno che mi vuole ascoltare. Mi sono sempre scontrato contro la sua consapevolezza, continuando solo ad aumentare il distacco e l’acredine da insistenza. Alla fine ho capito, inutile parlare, spiegare, le parole non hanno più lo stesso significato, da un lato l’urgenza di condividerle, dall’altro la repulsione che le fa volare via.
Ma adesso sono sereno, almeno sono riuscito a chiudere con un sorriso, per me importante, per lei magari superfluo. Questo mi aiuta a perdonarmi, ricompensato dal sorriso e dall’averlo vissuto, aiuta a non dover più combattere quel ricordo.
Poi il crepitio del fuoco mi riporta al mio qui ed ora senza troppo sforzo. Riparto con la lettura del libro, impegnandomi a vivere il romanzo di qualche personaggio inventato anziché il mio.


[1] Baricco, Barnum
[2] Dalla, Cara